RASSEGNA STAMPA
La Repubblica - Le torture a Bolzaneto e la notte della democrazia
Genova, 17 marzo 2008
Le torture a Bolzaneto e la notte della democrazia
GIUSEPPE D´AVANZO
C´era anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo
ricordano. «Giovanissimo». Più o meno ventenne, forse «di leva». Altri
l´hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di «sospensione
dei diritti umani», ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli
a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di
custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici
e infermieri dell´amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il
carabiniere "buono" diceva ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di
levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia
dell´acqua, se ne aveva una a disposizione. Il ristoro durava qualche
minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il
carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri
riprendeva. Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di
processo a Genova hanno documentato – contro i 45 imputati – che cosa è
accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della
polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio
2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani.
Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione;
spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre
statunitensi, un lituano.
Il processo
LE VIOLENZE IMPUNITE DEL LAGER BOLZANETO
Genova: senza il reato di tortura, pene lievi e prescritte per gli imputati
L´inchiesta
Oggi la caserma non è più quella di allora: e i "luoghi della vergogna"
sono stati cancellati
Manganellate, minacce, insulti, botte e umiliazioni: tutto ricostruito al
processo da più di trecento testimoni Episodi documenti, provati.
In quei tre giorni poliziotti e carabinieri rinchiusero per ore studenti,
operai e professionisti.
Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche
professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista…). I pubblici
ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto,
nella loro requisitoria, che «soltanto un criterio prudenziale» impedisce
di parlare di tortura. Certo, «alla tortura si è andato molto vicini», ma
l´accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le
responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326
persone ascoltate in aula.
Il reato di tortura in Italia non c´è, non esiste. Il Parlamento non ha
trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare
il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla
Convenzione dell´Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel
1988. Esistono soltanto reatucci d´uso corrente da gettare in faccia agli
imputati: l´abuso di ufficio, l´abuso di autorità contro arrestati o
detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono
nell´indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi
(gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono
determinati con la pena prevista dal reato).
Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto
scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio,
possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro
i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella
vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la
tortura non è cosa «degli altri», di quelli che pensiamo essere «peggio di
noi». Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può
appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.
* * *
Nella prima Magna Carta - 1225 - c´era scritto: «Nessun uomo libero sarà
arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori
legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su
di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del
paese». Nella nostra Costituzione, 1947, all´articolo 13 si legge: «La
libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale
sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà»
* * *
La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un´accorta
gestione, si sono voluti cancellare i «luoghi della vergogna», modificarne
anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine,
civili, militari, religiose coltivando l´idea di farne un "Centro della
Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C´è un campo da gioco nel
cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l´arrivo
dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come «Chi è
lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!», cori di «Benvenuti ad
Auschwitz». Dov´era il famigerato «ufficio matricole» c´è ora una cappella
inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001
risuonavano grida come «Morte agli ebrei!», ha trovato posto una
biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume
italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la
vita a 5000 ebrei.
* * *
Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l´ambiente è diverso e il clima di
piombo. Dopo il cancello e l´ampio cortile, i prigionieri sono sospinti
verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro
scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage
Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla
destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a
firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la
famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli
stranieri non si offre la traduzione del testo). A una donna, che protesta
e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto:
«Allora, non li vuoi vedere tanto presto…». A un´altra che invoca i suoi
diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H.T. chiede l´avvocato.
Minacciano di «tagliarle la gola». M.D. si ritrova di fronte un agente
della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice:
«Vengo a trovarti, sai». Poi, si è accompagnati in infermeria dove i
medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure
ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati
via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a
fare delle flessioni «per accertare la presenza di oggetti nelle cavità».
Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre
giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono
approssimativi. Meno imprecisi i «tempi di permanenza nella struttura».
Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì.
Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di
Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate
trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano
quelli della Diaz, contrassegnati all´ingresso nel cortile con un segno di
pennarello rosso (o verde) sulla guancia.
* * *
È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un
gergo per definire le «posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa».
La «posizione del cigno» - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate,
faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni,
nell´attesa di poter entrare «alla matricola». Superati gli scalini
dell´atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con
varianti della «posizione» peggiori, se possibile. In ginocchio contro il
muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella
«posizione della ballerina», in punta di piedi. Nelle celle, tutti sono
picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta
contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato «entro stasera vi
scoperemo tutte»; agli uomini, «sei un gay o un comunista?» Altri sono
stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: «viva
il duce», «viva la polizia penitenziaria». C´è chi viene picchiato con
stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla
schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un
«trauma testicolare». C´è chi subisce lo spruzzo del gas
urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.D.
arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella
«posizione della ballerina». Lo picchiano con manganello. Gli fratturano
le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di
rompergli anche l´altro piede». Poi, gli innaffiano il viso con gas
urticante mentre gli gridano. «Comunista di merda». C´è chi ricorda un
ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla
gamba buona». I.M.T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un
berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che
prova a toglierselo, lo picchiano. B.B. è in piedi. Gli sbattono la testa
contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci
flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida:
«Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». S.D. lo percuotono «con
strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A.F. viene schiacciata contro un
muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti», «Ora vi portiamo nei
furgoni e vi stupriamo tutte». S.P. viene condotto in un´altra stanza,
deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da
questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J.H. viene picchiato
e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è
costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti
seduti alla scrivania». J.S., lo ustionano con un accendino.
Ogni trasferimento ha la sua «posizione vessatoria di transito», con la
testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli
agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena.
Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C´è un
doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.
In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie
perquisizioni, una della polizia di Stato, l´altra della polizia
penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a
restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia
penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le
operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: «I piercing venivano
rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il
suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque
persone». Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate,
gli scherni. P.B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione.
Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: «E che
te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci». Poi un´agente donna gli si
avvicina e gli dice: «È carino però, me lo farei». Le donne, in
infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al
necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il
peggio avviene nell´unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala
di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri
devono sbrigare i bisogni dinanzi all´accompagnatore. Che sono spesso più
d´uno e ne approfittano per "divertirsi" un po´. Umiliano i malcapitati,
le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta
risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una
donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, «arrangiandosi così».
A.K. ha una mascella rotta. L´accompagnano in bagno. Mentre è
accovacciata, la spingono in terra. E.P. viene percossa nel breve tragitto
nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto «se è
incinta». Nel bagno, la insultano («troia», «puttana»), le schiacciano la
testa nel cesso, le dicono: «Che bel culo che hai», «Ti piace il
manganello». Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in
bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti
rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno
sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in
infermeria perché «puzzano» dinanzi a medici che non muovono un´obiezione.
Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato «strattonato e
spinto». Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone
della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella
cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo
lavoro liquidando i prigionieri visitati con «questo è pronto per la
gabbia». Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice
bianco. È il medico che organizza una personale collezione di «trofei» con
gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini,
«indumenti particolari». È il medico che deve curare L.K.
A L.K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene.
Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando
un´iniezione. Chiede: «Che cos´è?». Il medico risponde: «Non ti fidi di
me? E allora vai a morire in cella!». G.A. si stava facendo medicare al
San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a
Bolzaneto. All´arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono
adrenalinici. Dicono che c´è un carabiniere morto. Un poliziotto gli
prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai
due lati. Gli spacca la mano in due «fino all´osso». G.A. sviene. Rinviene
in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha
molto dolore. Chiede «qualcosa». Gli danno uno straccio da mordere. Il
medico gli dice di non urlare. Per i pubblici ministeri, «i medici erano
consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la
gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno
permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in
infermeria».
* * *
Non c´è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia
dell´estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene
per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non
sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano
che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre
sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della
persona e i suoi diritti. È un´osservazione che già dovrebbe inquietare se
non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l´indifferenza
dell´opinione pubblica, l´apatia del ceto politico, la noncuranza delle
amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono,
se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto. Possono
davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è
governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il
corpo e la «dimensione dell´umano» di 307 uomini e donne sono stati
sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e
tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e
non si ripetessero sempre «con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza
per l´etica, con l´identica allergia alla coerenza»?